Inizialmente programmata per il mese di novembre 2020, in occasione del quarantennale del terremoto dell’Irpinia, la mostra Sisma 80 ha aperto i battenti ufficialmente venerdì 12 febbraio al Chiostro di San Domenico Maggiore, dopo un’anteprima stampa che ha visto anche la partecipazione delle istituzioni cittadine come il Sindaco del Comune di Napoli, Luigi De Magistris, e l’assessore alla cultura Eleonora De Majo.
Un progetto ideato e diretto da Luciano Ferrara, prodotto da Noos aps – responsabile produzione Sofia Ferraioli –, e con l’organizzazione e la curatela di Tribunali138. Oltre 100 immagini di più di 20 fotografi: Archivio Luciano D’Alessandro Studio bibliografico Marini, Roma; Massimo Cacciapuoti; Toty Ruggieri; Annalisa Piromallo; Gianni Fiorito; Fotosud (Giacomo Di Laurenzio, Antonio Troncone, Mario Siano, Guglielmo Esposito); Associazione Archivio Carbone; Pressphoto (Gaetano Castanò, Franco Castanò, Franco Esse); Mario Riccio; Giuseppe Avallone; Guido Giannini; Pino Guerra ; Sergio Del Vecchio; Archivio fotografico Ferrara, Luciano Ferrara; e ultimo ma solo in questa lista il grande Mimmo Jodice, presente con le stampe analogiche originali dell’epoca, strazianti e intense.
Di Jodice colpisce il ritratto che fa dell’orrore e della morte, con gli scatti delle vittime sotto macerie e detriti, e in particolare quel dettaglio di una delle salme: occhiali e sigarette, gli ultimi oggetti rimasti di questa vita terrena, quasi un corredo funerario egizio riposto ai piedi del defunto avvolto da una coperta, quasi le monete di Carontiana memoria. Effetti personali che non possono far venire in mente anche le “buste” consegnate alle famiglie dei deceduti per covid-19 in questo terribile anno di pandemia, privati di ogni saluto ai propri cari, quest’ultimi strappati alla vita dal virus al pari delle scosse di quell’ora fatidica, le 19.34 del 23 novembre 1980.
Sono tanti gli spunti di riflessione, le assonanze col presente pandemico e con le tante, troppe tragedie italiane: i paesi sventrati fanno pensare subito alle immagini recenti di Amatrice, Accumoli, di ogni maledetto sisma italiano e le mascherine sui volti dei sopravvissuti sfollati sembrano quasi un triste presagio futuro. Se oggi le usiamo per proteggerci dal contagio del Sars-Cov-2, 40 anni fa servirono ai superstiti per prevenire il rischio biologico legato ai corpi in decomposizione sotto le case crollate. Un aneddoto agghiacciante che gela il sangue nel corso della visita all’esposizione.
Volti di un’Italia che forse non c’è più o che esiste ancora, almeno nelle proteste, a volte accese e colorate come quelle di Napoli contro il ministro Zamberletti, in altri casi sgrammaticate, ma sempre efficaci e disperate. La disperazione di un popolo contadino, travolto improvvisamente da un disastro immane, è palpabile e dopo quattro decenni sembra ancora di avvertirla, di sentirla, di poterla toccare con mano. I fagotti di panni e coperte trasportati in fretta e furia insieme a un “boccaccio” di melanzane sott’olio, i tostapane elettrici infilati nei sacchi, i vestiti lavati al fiume in quell’autunno freddo che già stava vivendo i primi rigori invernali: le fotografie esposte nella sala di San Domenico Maggiore sono uno straordinario documento storico, uno spaccato di quell’evento che sconvolse la Campania e l’Italia stessa.
I reportage realizzati all’epoca narravano già le primissime conseguenze di quelle scosse fatali, conseguenze economiche e sociali, fin dalla prima notte trascorsa nelle macchine in Piazza Plebiscito, all’aperto, con sedie di fortuna, per arrivare poi all’incertezza più totale legata alla ricostruzione, alla rabbia della “deportazione” verso nuovi quartieri costruiti ad hoc – dove nascondere la polvere sociale sotto il tappeto. In un cartello affisso ai Quartieri Spagnoli di Napoli è evidente poi tutta la sfiducia nei confronti di autorità e istituzioni dinnanzi agli sgomberi e all’impossibilità di riaprire attività commerciali, negozi, e di riprendere vita e lavoro quotidiano. Parole che risultano quanto mai attuali a distanza di così tanto tempo, in epoca di epidemia, zone rosse, gialli e arancioni, con le imprese messe a dura prova prima dal lockdown e poi dalle nuove chiusure dovute alla seconda ondata di coronavirus, soprattutto al Sud.
Una mostra da non perdere assolutamente, perché la memoria non è mai troppa e ricordare il passato, mai come adesso, ci aiuta a capire il presente e a progettare il futuro.